lunedì 13 luglio 2009

Uno dei tanti buoni motivi per leggere Meneghello

«Diremo intanto che in Meneghello il discorso narrativo si svolge prevalentemente in lingua. Una lingua colta che, non senza guardare a Gadda, incastona parole e frasi latine o inglesi o francesi, citazioni o allusioni ad autori italiani e stranieri, alternando alla discorsività quasi familiare toni molto letterari, per lo più in modo ironico o scherzoso. Il dialetto pullula tutt’intorno, o emerge alla superficie da profondi ipogei. Alla citazione diretta del dialetto (parole o frasi), si aggiungono i calchi italiani del dialetto stesso, o tracce di italiano regionale. Quantitativamente non sembra nemmeno tanto; ma presto si avverte la funzione fondativa che il dialetto ha. Lo si vede nelle note e dagl’indici, o, per usare un termine di moda, da tutto il paratesto. E lo si verifica confrontando con le opere successive di Meneghello. E allora, vediamo cos’è, per lui, il dialetto.

Il dialetto, per Meneghello, s’identifica con la prima lingua che ha parlato; è, insomma, la lingua. L’italiano è stato imparato a scuola e in modo catechistico, è intriso del linguaggio politico del tempo (fascista) e di preconcetti religiosi. Il dialetto è dunque la «lingua naturale», quella della mamma, dei compagni di giochi; l’italiano è la lingua dei maestri e del potere. Ogni parola del dialetto vibra di sensazioni e ricordi, è qualcosa che si lega alla natura, alla vita, alla personalità, ai sentimenti. L’interesse sociologico appartiene ed è esaurito dall’attenzione al proprio paese; non costituisce certo una spinta autonoma alla scrittura. La lingua nazionale per contro è rigida, priva di espressività, rimanda a forze repressive e innaturali.»
(Cesare Segre nel saggio posto in Prefazione a Libera nos a malo, Rizzoli, Milano, 1975)