«Diremo intanto che in Meneghello il discorso narrativo si svolge prevalentemente in lingua. Una lingua colta che, non senza guardare a Gadda, incastona parole e frasi latine o inglesi o francesi, citazioni o allusioni ad autori italiani e stranieri, alternando alla discorsività quasi familiare toni molto letterari, per lo più in modo ironico o scherzoso. Il dialetto pullula tutt’intorno, o emerge alla superficie da profondi ipogei. Alla citazione diretta del dialetto (parole o frasi), si aggiungono i calchi italiani del dialetto stesso, o tracce di italiano regionale. Quantitativamente non sembra nemmeno tanto; ma presto si avverte la funzione fondativa che il dialetto ha. Lo si vede nelle note e dagl’indici, o, per usare un termine di moda, da tutto il paratesto. E lo si verifica confrontando con le opere successive di Meneghello. E allora, vediamo cos’è, per lui, il dialetto.
Il dialetto, per Meneghello, s’identifica con la prima lingua che ha parlato; è, insomma, la lingua. L’italiano è stato imparato a scuola e in modo catechistico, è intriso del linguaggio politico del tempo (fascista) e di preconcetti religiosi. Il dialetto è dunque la «lingua naturale», quella della mamma, dei compagni di giochi; l’italiano è la lingua dei maestri e del potere. Ogni parola del dialetto vibra di sensazioni e ricordi, è qualcosa che si lega alla natura, alla vita, alla personalità, ai sentimenti. L’interesse sociologico appartiene ed è esaurito dall’attenzione al proprio paese; non costituisce certo una spinta autonoma alla scrittura. La lingua nazionale per contro è rigida, priva di espressività, rimanda a forze repressive e innaturali.»
(Cesare Segre nel saggio posto in Prefazione a Libera nos a malo, Rizzoli, Milano, 1975)
lunedì 13 luglio 2009
Iscriviti a:
Post (Atom)